La storia

Un cammino scolpito nel tempo

Molti sono gli autori e i documenti che nei secoli si sono occupati della realtà delle diverse tipologie litiche della pietra bellunese e tra questi due sono gli esempi più notevoli ed interessanti per il trattamento dell’argomento e per l’approfondimento di notevole qualità delle notizie: Lucio Doglioni e Angelo Guarnieri. A seguire indicheremo i principali periodi storici che hanno caratterizzato le scoperte nel tempo di questo materiale unico.
Foto in alto: Portale a bugne della facciata settentrionale del duomo di Belluno in pietra di Castellavazzo con lo stemma del Vescovo Andrich.


LE ORIGINI

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I ROMANI

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IL MEDIOEVO

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LA SERENISSIMA

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L’OTTOCENTO

IL NOVECENTO

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Quello della pietra bellunese è riconoscimento sul campo lungo secoli, attestandosi la data di nascita delle nostre formazioni rocciose a circa 90 milioni di anni fa, in occasione dell’emersione del corrugamento alpino originatosi dalla successione di sedimentazioni di sabbie marine iniziate ben 300 milioni di anni fa. Le prime applicazioni della pietra furono guidate dalla necessità ma anche dall’istinto e dalla sensibilità nei confronti della materia prima: i primi ritrovamenti nel Bellunese, considerato già allora come una grande riserva di caccia e di selce, sono databili al Paleolitico medio e si concretizzano in testimonianze di oggetti in pietra per l’attività venatoria e per gli usi quotidiani. Non si esclude di certo una presenza precedente, ma i forti cambiamenti ambientali hanno causato la perdita di ogni testimonianza antropica, in ogni caso in questo tempo non continuativa ma influenzata dai grandi cambiamenti climatici. Il primo processo conosciuto di popolamento del Bellunese si attesta quindi tra gli 80.000 e i 15/10.000 anni fa, in corrispondenza dell’ultima glaciazione würmiana, alla cui conclusione gruppi di cacciatori nomadi paleolitici e a seguire comunità di agricoltori e allevatori neolitici si insedieranno stabilmente nella nostra provincia. I reperti lapidei preistorici sono quindi legati alla realizzazione di strumenti di sussistenza o all’impiego delle pezzature naturali: per esemplificare entrambe le casistiche ricordiamo rispettivamente quindi il sito di superficie dell’officina di estrazione e lavorazione della selce presso Campon sul Monte Avena, ascrivibile al Paleolitico (tra i 50.000 e i 27.000 anni fa) e indicato come il più antico insediamento umano conosciuto nel Bellunese (con ritrovamenti affini per cronologia e tipologia a quelli dell’Altopiano del Cansiglio e di Mel), nonché la sepoltura del cacciatore nella valle del Cismon (circa 14.000 anni fa), il cui corpo fu deposto con una sacca in pelle contenente diversi strumenti litigi e ricoperto da ciottoli e pietre delle dimensioni di 20/30 cm provenienti dal torrente Rosna e arricchite da tracce dipinte di motivi geometrico-schematici e naturalistici, una preistorica manifestazione artistica connessa alla spiritualità e al culto dei morti con lo scopo di auspicare il miglior passaggio all’aldilà omaggiando le qualità fisiche e morali del defunto. Rinvenimenti da entrambi i siti sono apprezzabili presso la sezione archeologica del Museo Civico di Belluno. Non si può non citare uno dei più emblematici ritrovamenti bellunesi di età tardoneolitica ed eneolitica: il sito del Col del Buson (4500-3000 a.C). I reperti qui rivenuti si pongono per quantità, qualità e stato di conservazione come testimonianza importante a comprovare la catena della lavorazione della selce fino alla realizzazione dei prodotti finiti, tra i quali sono stati portati alla luce raschiatoi, grattatoi, lame, troncature, bulini, perforatori, punte di freccia, pugnali, elementi di falcetto, percussori, ritoccatori ovvero tutti strumenti per le attività lavorative e di sopravvivenza.

VENETI ANTICHI
Quella dei Veneti antichi è una popolazione che si è riscoperta strettamente legata alla lavorazione delle materie prime, soprattutto di quelle metalliche come emerge dagli importanti fondi del Museo Archeologico Cadorino di Pieve di Cadore ma ancora dalle ultime scoperte realizzate nell’area della necropoli di Pieve d’Alpago, da cui proviene la famosa situla in bronzo decorata a sbalzo su fasce sovrapposte con scene relative la vita ideale delle aristocrazie venetiche. L’impiego della pietra da parte di queste Comunità ci sono arrivate anch’esse connesse alle necropoli, quale materiale per la realizzazione della particolare tipologia di sepolture dettate dalla loro cultura e religione. A Mel durante gli scavi (1958-1964) sono emerse una ottantina di tombe e sette recinti funerari, di cui quattro sono visibili nel ben conservato sito databile tra il VIII al V secolo a.C. Allineate secondo la direttrice ovest-est, le sepolture erano realizzate con lastre di arenaria infisse verticalmente nel terreno con l’ingresso, costituito da lastre/stipiti verticali e da una lastra/soglia, posizionato a sud. Tre dei recinti sono stati rinvenuti vuoti e questo consente di ipotizzare che realizzazione delle sepolture precedesse il vero e proprio utilizzo delle tombe ed avevano la funzione di reggere i tumuli di terra che coprivano e proteggevano la reale sepoltura, una cassetta lapidea contenente un vaso-ossuario in ceramica o in bronzo contente i resti del defunto e gli oggetti di corredo.

È con i Romani che si allarga la prospettiva delle applicazioni delle pietre del Bellunese, area che inizialmente attirò l’attenzione soprattutto per le sue riserve di ferro e rame tanto da far assurgere Belluno a Municipium nel I secolo d.C., con una riorganizzazione territoriale dell’area in pagi (distretti amministrativi) e vici (villaggi) come testimoniato dalla stele neroniana di Castellavazzo, che forse ha anche una connessione alla riforma di Nerone del 58 d.C. che esentava dalle tasse le navi da trasporto a fino commerciali: norma non da poco per una Comunità la cui preminente attività economica consisteva nella fluitazione di beni per via, come rimarrà testimoniato per secoli attraverso l’attività degli zattieri della Piave. Grande importanza all’interno del municipium di Belluno avevano le associazioni professionali con scopi assistenziali e religiosi, quelle che si evolveranno nei secoli successivi nelle Scuole veneziane o nelle Gilde nel Nord Europa. Per quanto riguarda la nostra area, numerosi ritrovamenti epigrafici testimoniano l’esistenza del collegium fabrorum, che riuniva artigiani dei metalli, del legno e della pietra e del collegium dendrophororum coinvolgente boscaioli, commercianti e trasportatori del legname. Proprio a Belluno viene ricordata, sul prospetto principale di una base per scultura in pietra calcarea del Cansiglio databile al III secolo d.C. e rinvenuta durante uno scavo nel 1888, la figura di Marco Carminio Pudente, personaggio di spicco che tra i suoi svariati incarichi indossò anche la veste di entrambi i collegia dei dendrofori e fabbri.

La romana organizzazione delle attività produttive non si fermava però al livello di associazione: all’interno di ogni mestiere c’era infatti una ulteriore suddivisione dei compiti. Nell’ambito della lavorazione della pietra quindi troviamo quindi impiegati per diversi compiti e impieghi:

  • lapidarii, addetti alla preparazione del blocco e alla messa in opera;
  • lapicidae, operatori che si dedicavano alle incisioni delle iscrizioni.

I Romani applicarono all’estrazione mineraria e di cava e alla lavorazione della materia prima un approccio sistematico, organizzato e consapevole ossia un apparato regolamentato dal Collegium fabrorum e con un tale approccio sistematico, organizzato e consapevolmente codificato in un apparato regolamentato, la pietra, il suo trasporto e la sua lavorazione divennero già in quest’epoca uno dei perni della economia del bacino plavense. Numerose sono le attestazioni epigrafiche ed artistiche che ci sono pervenute dalla romanità: dalle lapidi ed iscrizioni commemorativi di fatti o, più spesso, funebri al conosciuto sarcofago di Flavio Ostilio Sertoniano, proveniente dalla necropoli dell’area di Santo Stefano ed oggi conservato in Palazzo Crepadona. Databile alla prima metà del III secolo d.C., la sepoltura fu commissionata da Flavio Ostilio Sertoniano in commemorazione dei suoi ruoli di sacerdote, patrono e cavaliere del Municipio, ma anche per ospitare il riposo eterno della moglie Domizia Severa. Realizzato in pietra bianca del Cansiglio, il sarcofago presenta sui quattro lati una ricca decorazione a bassorilievo, tra cui emerge quella del prospetto posteriore che vede lo stesso Flavio Ostilio impegnato in una battuta di caccia (da cui è nata la leggenda che abbia salvato la città di Belluno da un terribile cinghiale), mentre anteriormente campeggia il motto “Sii desto e godi dei tuoi monti sempre ricordandotene”. L’opera fu rinvenuta nel 1486, nel corso degli scavi per le fondazioni del campanile della chiesa di Santo Stefano.

Ma consuetudinario e ancora ben testimoniato è l’utilizzo urbano della pietra nel Municipium bellunese:

  • pietre miliari e confinarie, delle quali la più conosciuta è quella ritrovata a Cesiomaggiore a segnalare il percorso della famosa ed importante asse viario della Claudia Augusta Altinate, mentre affascinanti sono le tre iscrizioni limitali FIN BEL-IUL sul Monte Civetta tra i 1800 e i 2100 metri s.l.m., probabilmente a segnare i confini, in corrispondenza dei rispettivi pascoli, tra i municipi di Belluno e quello friulano di Iulium Carnicum;
  • comparti urbani, fondazioni e alzati delle abitazioni e lastricazioni viarie: da nominare sono i lacerti murari a secco emersi a Losego e l’importante sito archeologico di Feltre al di sotto della piazza del Duomo. Circa mille metri quadrati di estensione conservano le testimonianze delle fase più antiche della vita cittadina con il lacerto di un quartiere urbano del centro romano di Feltria, innestato su di un insediamento più antico; sono ben visibili i resti di edifici di edilizia privata – con alcuni ambienti adibiti a botteghe – affacciati su una strada lastricata. Nella parte centrale dello scavo si può godere di una grande costruzione con pavimenti a mosaico realizzati con marmi bianchi e neri provenienti rispettivamente dal Centro Italia e dalla Grecia, probabile sede della schola dei dendrofori. Le restanti parti in pietra furono edificati con materiali tratti da greti di torrenti e cave locali, tra cui spicca la pietra rossa proveniente dal sito di Mellame;
  • porte del castrum, ricordando qui le cittadine Porte Rugo e Dojona, mentre Porta Dante all’epoca e ancora nel 1300 era nota come  Porta Ussolo, ovvero piccolo uscio (comunemente detto pusterla) in quanto apertura di servizio che nella seconda metà del 1600 ebbe anche l’appellativo di Reniera, dal rettore Daniele Renier;
  • acquedotti, cloache e ponti, citando qui la condotta su archi di Fisterre e il ponte romano che si intravede a Sedico, sulla Strada Statale 203 verso Agordo;
  • sepolture, cassette in pietra, legno o metallo erano realizzate per contenere resti combusti, mentre propriamente in pietra erano le tombe monumentali per inumazione;
  • elementi architettonici quali capitelli e trabeazioni di edifici con funzioni religiose e civili: vedasi all’esterno del Museo Civico di Belluno tra tutto il capitello scoperto nel sito di porta Dante.

In questo periodo tra i litotipi bellunesi, ruolo di spicco venne rivestito dal Biancone dell’Alpago, calcare bianco di buona qualità che andava idealmente a ricordare e richiamare le coperture in travertino di Roma capitale, in una operazione volta a donare maggiore omogeneità possibile alle diverse aree dell’Impero attraverso la trama urbanistica e architettonica. Un problema che si può segnalare relativamente la pietra del Cansiglio riguardava la scarsa e difficoltosa accessibilità agli affioramenti, che ne comportò una diffusione circoscritta. Ricordiamo comunque in questo tempo anche la estrazione dalle cave di Castellavazzo, Tisoi e Lastreghe.

Capitello romano

Capitello romano, III secolo d.C., Belluno, Museo Civico.

Ponte romano

Ponte romano, Sedico, Strada Statale Agordina.

Stele neroniana di Castellavazzo

Stele neroniana, Castellavazzo, Expo Archeologica.

Sarcofago di Flavio Ostilio Sertoniano

Sarcofago di Flavio Ostilio Sertoniano, Belluno, Palazzo Crepadona.

Dopo la caduta di Roma, anche Belluno visse le vicende delle invasioni barbariche che ne cambiarono senza dubbio il volto. Visigoti, Vandali, Eruli, Unni, Ostrogoti e Bizantini si avvicendarono al potere della città, mentre solo nell’ultimo periodo vi fu un importante fermento edilizio in chiave difensiva contro il pericolo longobardo, ma con ben poco successo perché Belluno divenne senza troppi problemi “sculdascia” longobarda (ossia circoscrizione amministrativa che controllava i vari agglomerati sparsi sul territorio basati sulle fare o decanie). Si edificò sul lato nord un primo rudimentale castello, forse un semplice bastione, detto all’uso longobardo, Dongione o Motta. Questi nomi rimasero l’uno per indicare il tenutario del castello e della porta (i Doglioni), l’altro per il luogo d’intorno (la piazzetta antistante).

I Franchi, per indebolire i Ducati troppo forti e troppo estesi, divisero il territorio in contee e marche e optarono di appoggiarsi ai Vescovi: iI primo vescovo-conte investito di potere sui possedimenti della Chiesa bellunese fu Aimone nell’882. Nello stesso periodo, si organizzarono anche gli spazi interni: la piazza del Duomo con la chiesa – come si vede dai lacerti delle decorazioni a racemi in facciata – e il palazzo dei Vescovi (ora Auditorium); la piazza del mercato (l’attuale Piazza delle Erbe), antico centro medioevale degli affari; i quartieri intorno alle case della piccola nobiltà locale; il sistema viario con l’asse principale nord-sud di via Mezzaterra. Con l’affermarsi del governo aristocratico del Vescovo-Conte, si delineò la città medioevale caratterizzata da castello, cinta di mura, porte e torri: di questo periodo restano pochi rilevamenti archeologici, ma fortunatamente numerose antiche testimonianze a stampa.

Durante il Medioevo e nel periodo successivo fu frequente anche la pratica del riuso di reperti lapidei romani in edifici nuovi e in fase di ristrutturazione di architetture precedenti per conferire importanza e austerità data dal lacerto antico. Vediamo a questo proposito sulla cattedrale di San Martino di Belluno, nel prospetto laterale accanto all’apertura laterale che si affaccio sul Palazzo dei Rettori, il riuso di una lapide romana realizzata in pietra del Cansiglio dove fa bella mostra di sé la formula D.D. (Decretum Decurionum), sigla che sanciva il decreto da parte del consiglio comunale.

Si presentarono casi di riuso anche meno rispettosi, che videro la distruzione di architetture romane per trarre materiale difensivo di pronto utilizzo. A Castelvint – nei pressi di Mel, zona notoriamente interessata già dal passaggio romano attraverso il valico del San Boldo – fu ritrovata una sepoltura a piastre appartenuta ad un nobile longobardo databile intorno al V secolo d.C., mentre nella località di Cor sono presenti i segni di un fortilizio di epoca bizantina.

Con l’avvio dell’età dei Franchi dall’VIII secolo, Belluno godette di un nuovo significativo sviluppo, testimoniato dai fregi frammentari della più antica cattedrale cittadina, oggi incastonati sulla facciata del Duomo, ma anche l’appoggio ai Vescovi che garantirono la cura della definizione dell’aspetto del Capoluogo attraverso interventi sul castello, la cinta muraria, le porte e i torrioni con la riorganizzazione degli spazi interni cittadini.

Ma sono numerose anche le tracce lungo il territorio bellunese, identificabili in plutei, pilastrini e frammenti ritrovabili anche in altre chiese tra le quali ricordiamo quelle di san Liberale di Pedeserva, san Sebastiano di Travazzoi, san Giovanni di Mares e santa Filomena di Santa Croce del Lago, dove in quest’ultima compaiono le tipiche decorazioni geometriche a nastro o ad intreccio di vimini a decorazione dell’ingresso principale. Sulla facciata di questa chiesa fa bella mostra di sé anche la successiva lapide di Paul Imhoff, notabile di Norimberga che nel 1478 durante il ritorno in Patria da Venezia incontrò qui la morte a causa della peste: fu commemorato per volere della famiglia da una lastra recante il bassorilievo di Cristo in preghiera nel giardino del Getsemani, di mano della bottega lagunare del maestro Pietro Lombardo.

Lacerti decorazione Duomo di Belluno

Lacerti decorativi di epoca franca, Belluno, Cattedrale di San Martino.

Lacerti decorazioni Duomo di Belluno

Lacerti decorativi di epoca franca, Belluno, Cattedrale di San Martino.

Lapide castello

Lapide commemorativa del castello cittadino, Belluno.

Resti del castello

Resti del castello cittadino, Belluno.

 

Resti del castello

Resti del castello cittadino, Belluno.

Resti del castello di Belluno

Resti del castello cittadino, Belluno.

Resti del castello di Belluno

Resti del castello cittadino, Belluno.

Se l’uso è anticamente attestato, il periodo d’oro per l’impiego delle diverse tipologie di pietre bellunesi coincise con la dominazione della Repubblica di Venezia, la quale applicò lo stesso principio romano di sfruttamento del territorio bellunese quale bacino di approvvigionamento di materie prime, unendoci anche una malizia commerciale più spiccata e puntuale.
Il grande e specifico interesse per la pietra provenne dai consistenti interventi edilizi che si diffusero in tutta la estensione del Serenissimo dominio, cosicché anche le nostre pietre di Castellavazzo, La Secca, Losego, Cugnan e Alpago – area fortemente sfruttata anche per l’approvvigionamento del legno – non si ritrovano impiegate solo localmente ma anche a Venezia e in tutte le importanti o meno città dello Stato da Terra per la realizzazione di pavimentazioni esterne ed interne di palazzi e chiese, archi, capitelli, architravi e davanzali. La diffusione degli specifici litotipi succitati ha una motivazione tanto semplice quanto ingegnosa: il materiale estratto da queste cave era facilmente trasportabile al fiume Piave e caricato sulle zattere nei porti plavensi raggiungeva facilmente la pianura prima e la Laguna poi.

Con la dedizione a Venezia del 28 aprile 1404 e la conclusione quindi della dominazione medievale dei vari signorotti della pianura (Romano d’Ezzelino, Scaligeri, Visconti, Da Carrara), Belluno città iniziò ad essere identificata con l’epiteto di Cividal e venne fortemente implementata la protezione con l’erezione delle mura di cinta urbane intorno al castello dalla parte del Campedel (l’originaria area libera fuori dal centro della città, dove si tenevano fiere e parate) lungo il lato sud, mentre all’estremità ovest si ricorda la presenza della torre del castello. Queste mura rimasero in piedi fino al secolo XVIII quando, dopo il riempimento del fossato, cominciarono ad essere demolite per la costruzione degli edifici. Ma non solo: importanti azioni urbanistiche cittadine furono anche il restauro delle porte urbane e delle fontane della piazza di Belluno ma salvaguardando epigrafi e simboli araldici degli antichi podestà caminesi e del ducato visconteo, la costruzione di abitazioni patrizie e di edifici sacri tra cui le chiese di San Pietro, Santa Croce e Santa Maria dei Battuti ma anche la ricostruzione di edifici e palazzi del potere e di rappresentanza, segnalando il Palazzo del Vescovo (Auditorium attuale), dove largo uso venne fatto della pietra di Castellavazzo. A questo periodo si datano anche il possente torrione della Motta, la caminada per il Palazzo del Consiglio e la Loggia.

Come accennato, pietra prestigiosa molto impiegata  tra XV e XVI secolo fu quella di Castellavazzo soprattutto per le varietà cromatiche che permettevano un intrigante gioco di contrasti nella tra combinazione rosso e grigio, come si ammira nella chiesa di santo Stefano di Belluno dove, per mano del maestro lapicida Giorgio da Como (che addirittura chiese la cittadinanza bellunese per la lunga durata della sua permanenza in città e avere diritti maggiori), vennero abbinate nelle membrature architettoniche e nei fusti delle colonne le pietre di Castellavazzo e Valdart, a quella bianca di Pinè, mentre tutti i capitelli bianchi uniformano il percorso visivo fino all’altare maggiore, creando un insieme che determina una importante e affascinante struttura spaziale.
La pietra di Castellavazzo venne anche particolarmente apprezzata per la sua resistenza meccanica ed atmosferica, che l’ha portata ad importanti impieghi in interventi architettonici esterni. Venne impiegata per le basi delle colonne, le mensole e le lastre sagomate durante la ricostruzione del 1496 del palazzo dei Rettori di Belluno, mentre all’interno lo stesso Giorgio da Como fu impegnato nella costruzione della balaustra della scala monumentale, purtroppo non giunta fino a noi, dove aveva studiato un sistema alternato di colonnine bianche e rosse sormontate da sfere decorative o leoncini in pietra rossa. I fusti delle quattordici colonne dell’esterno furono realizzati con il calcare bianco tratto dalla cava di Valdart.

Nel suggestivo palazzo Reviviscar (dal motto benaugurante “Sopravvive” che indica la volontà della famiglia Persico di rinascere) si nota la importante facciata di fine 1400 che è l’unico superstite rinascimentale ad un devastante incendio accaduto nel 1933, la quale viene abbellita dall’impegno delle maestranze locali che lavorano splendide decorazioni in pietra rossa di Castellavazzo – definita nei documenti «pria zentil» per il carattere estetico e decorativo – nel portale centrale con bugne a taglio a diamante, nelle fasce orizzontali scolpite a bassorilievo, nelle polifore centrale e nelle monofore laterali. Il palazzo conserva ai lati due altane a ricordo delle torrette del palazzetto medievale del 1300.

Al Cinquecento, precisamente al 1553, si riporta la riedificazione di Porta Dojona ad opera di Nicolò Tagliapietra, dove vengono impiegate le due tipologie di pietra di Castellavazzo senza alcun intento decorativo programmatico, mentre lo scalpellato leone di sommità viene inserito un bassorilievo quattrocentesco. Era conosciuta a Belluno come “porta de le cadene” per la presenza del ponte levatoio sul fossato dal lato nord, interrato nel 1730. La precedente chiesa principale della città, il Duomo, subì in quest’epoca una forte azione di rinnovamento alla luce del nuovo linguaggio architettonico che stava prendendo piede, basato sul recupero della classicità. Per la cattedrale di san Martino troviamo un progetto di Tullio Lombardo che a metà del 1500 applicò anch’egli il contrasto cromatico tra materiali: la pietra rossa di Castellavazzo a definire alcune membrature dell’ordine architettonico mentre la grigia non lucidata per le restanti parti con lo scopo di creare un contrasto smorzato.
Quindi non sottovalutate nel tempo sono state anche le potenzialità estetiche date dalle diverse finiture a cui la pietra poteva e può essere sottoposta: lucidata, gradinata, sbozzata a punta e bocciardata, opzioni che davano molte possibilità di combinazione e di diversa resa coloristica estetica.

Durante la metà del Cinquecento il famoso architetto Andrea Palladio venne chiamato a Feltre a progettare la costruzione della sede municipale che ora si riconosce nei caratteri originari solamente nella loggia a grandi conci, scolpiti nella pietra di Fastro. L’architetto successivamente si mosse a Belluno per progettare il ponte sul Piave, poi concretizzato su proposta di Jacopo da Ponte.

Il XVII secolo – se si ricorda per essere il momento in cui la pietra viene dedicata alla realizzazione dei dettagli delle ville bellunesi nell’ambito dell’avanzata della cultura architettonica veneta verso la montagna con la diffusione della tipologia legata tanto al poetico ozio ma più concretamente al controllo delle attività economiche sul territorio – è un ulteriore momento di approfondimento della regolamentazione in materia di pietra e cave con l’istituzione in forma permanente nel 1665, da parte del Consiglio dei Dieci, dei Deputati sopra le Miniere, una magistratura che sovrintendeva alla gestione e al controllo di ogni genere di prodotto del sottosuolo, nonché delle fornaci per la produzione di calce, laterizi e vasellame. Queste materie prime erano di proprietà statale e la loro estrazione fu legalizzata attraverso la concessione di investiture (concessioni dei Deputati) e il pagamento di una tassa sul materiale detta decima minerale. Nel Bellunese da parte del governo veneziano venne introdotto lo strumento dei “partiti”, particolari appalti di riscossione della decima affidati a vicari privati nominati dai Deputati e con compito anche di controllo della regolarità della operatività.

La connessione tra miniere e pietra viene ben esplicitata dalla realtà di Agordo, con l’acquisizione da parte della famiglia Crotta – originaria da un piccolo centro industriale vicino a Lecco – tra fine XVI e inizio XVI secolo della concessione di operare sui siti di produzione mineraria di Valle Imperina a Rivamonte, di mercurio a Vallata di Gosaldo, di Ferro sul Fursil di Colle Santa Lucia, per il carbone di Falcade e i forni di Cencenighe, importando tecniche di scavo a coltivazione provenienti dall’Oltralpe. I Crotta entrarono così tra le fila del Consiglio dei Nobili di Belluno ed Alessandro completò la dimora di Agordo nel 1692 arricchendo il parco-giardino del palazzo-villa veneta con alcune statue (localmente e familiarmente chiamate “Pop de Crotta”) realizzate con la Dolomia di Cencenighe, materia prima impiegata anche per le partiture architettoniche di una fabbrica alla quale partecipò anche un Lombardo, del ramo familiare del già citato e celebre Tullio. Questa pietra venne utilizzata anche nelle località limitrofe per la realizzazione di numerose architetture private e religiose: un esempio per tutti sia il portale secondario della chiesa di san Rocco di Celat di Vallada Agordina.

Il Settecento bellunese racchiude una bellissima parentesi barocca con protagonisti di tutto rilievo. Il vescovo Zuanelli si fece inviare dalla Corte sabauda l’abate Filippo Juvarra per l’erezione della torre campanaria della cattedrale di San Martino con terminazione a cipolla che si lega a doppio filo alla tradizione tardo-cinquecentesca dell’alto Bellunese e Altoatesina, non mancando di ammiccare alla consuetudine decorativa dei mascheroni. Questa torre campanaria cittadina può essere considerata una delle architetture più belle e ardite realizzate in terra bellunese con pietra di Castellavazzo. In città ricordiamo anche importanti interventi sul Collegio dei Gesuiti commissionato ad Andrea Pozzo tra il 1704 e il 1734, del quale rimangono il portale e alcuni elementi decorativi di facciata in pietra di Castellavazzo così come palazzo Minerva, sede della Accademia degli Anistamici, decorata in facciata dai bassorilievi della trabeazione del portico in pietra castellana: da sinistra a destra si vedono vomere, innesto, compasso squadra e cannocchiale, mappamondo, vanga e ruota. Un caso particolare di utilizzo della pietra locale è quello della realizzazione di leone di San Marco, simbolo della dominazione del governo della Serenissima e della dedizione locale che, scolpito nelle diverse pietre territoriali, si ritrova lungo tutto il territorio.

Belluno è stata, insieme a Capodistria, la città più stemmata della Repubblica Veneta, dove i simboli di questo potere subirono tre devastanti fasi di iconoclastia: la prima tra il 1412 e il 1420 quando la città cadde sotto Sigismondo di Boemia, l’altra cinquecentesca con la Lega di Cambrai e l’ultima quando la Repubblica cadde definitivamente nel 1979. Questi simboli erano posti su lapidi, fontane, in decorazioni applicate con significati evocativi, dipinti o incisi sulle tavole dei registri di raspe (atti giudiziari), su mobili per interni e, non ultimo, su cippi confinari tanto che nel territorio di Auronzo esiste una località denominata “Fòra del leon”

Torrione

Torrione, Belluno.

Porta Dojona - Belluno

Porta Dojona, Belluno.

Porta Dojona - Belluno

Porto Dojona, Belluno, particolare.

Porta Dojona - Belluno

Porto Dojona, Belluno, particolare.

Palazzo Reviviscar - Belluno

Palazzo Reviviscar, Belluno.

Palazzo Reviviscar - Belluno

Palazzo Reviviscar, Belluno, particolare.

Palazzo Reviviscar - Belluno

Palazzo Reviviscar, Belluno, particolare.

Palazzo dei Rettori - Belluno

Palazzo dei Rettori, Belluno.

Palazzo dei Rettori e Auditorium - Belluno

Palazzo dei Rettori e Palazzo dei Vescovi (ora Auditorium), Belluno.

Particolare Palazzo dei Rettori

Palazzo dei Rettori, Belluno, particolare.

Fontana di Piazza delle Erbe

Fontana, Belluno, Piazza delle Erbe.

Chiesa di Santo Stefano

Chiesa di Santo Stefano, Belluno, interno, particolare.

Chiesa di Santo Stefano

Chiesa di Santo Stefano, Belluno, interno.

Chiesa di Santo Stefano

Chiesa di Santo Stefano, Belluno, interno, particolare.

Campanile Juvarra

Torre campanaria, Belluno, Cattedrale di San Martino.

Campanile Juvarra

Torre campanaria, Belluno, Cattedrale di San Martino.

Il XIX secolo fu il periodo in cui l’attestazione dell’importanza e della qualità della pietra bellunese iniziò ad essere sancita anche nei documenti e nelle trattazioni scritte. Due su tutti sono gli autori che concorsero a tale evoluzione in maniera qualitativamente importante tanto per la qualità della trattazione dell’argomento quanto per l’approfondimento delle notizie: Lucio Doglioni e Angelo Guarnieri. Lucio Doglioni nell’opera Notizie istoriche e geografiche della città di Belluno e sua provincia: Con dissertazioni due dell’antico stato, e intorno al sito di Belluno, edita a Belluno il 1 ottobre 1816, dà informazioni concernenti l’applicazione di alcune pietre tra cui quelle di Tisoi e Soccher, Castellavazzo e Cugnan, chiudendo con la spiegazione di uno dei motivi di base dell’abbandono dei siti di estrazione.

“[…] Traffico non mediocre parimenti si fa di pietre molari, e di macine da macine da mulino, che pel Trivigiano, ed altrove ancora si trasportano. Si cavano quelle presso a Tisojo, le quali sono di perfetta qualità, ed in altri luoghi, sebbene più rozze ed aspre; e queste a Sochero. Di marmi parimenti, e di pietre per uso di fabbriche non si scarseggia. Nello Zoldano si ritrovano pezzi di alabastro, assai facile al taglio, e lucido eziandio; e innoltre certo marmo bianco e rosse, del quale conosciuto il pregio da un riguardevole Cavalier Trivigiano, per suggerimento di lui in molti nobili lavori di Altari, e Tabernacoli con ottimo effetto fu adoperato. Di tal sorta di marmo è appunto l’Altar Maggiore di S. Parisio di Trevigi. Ma le pietre, che in maggior copia si cavano sono quelle di Castel di Lavazzo, che, sebbene poco atte a lavori gentili, sono opportune ad ogni sorte di fabbrica. Pei selciati si adoprano quelle di Cugnano, di cui haccene pur abbondanza. Dagli strati raminghi poi, che per ogni dove s’incontrano, si traggono le lastre, che a foggia di tegole si pongono in uso a coprire i tetti delle case in vece di coppi. Quasi tutte però e le Chiese, e le Case sì di Città, che di Campagna nel Bellunese di siffatte lastre sono coperte; e veramente esse porgono una difesa mirabile contro le nevi, che si agghiacciano sopra i tetti. Una volta traevasi marmo bianco eccellentissimo, e facile a lavorarsi dalla Valle di S. Mammante, come può vedersi egregiamente posto in opera nel Palazzo del Rettore; ma ora rottesi le strade, per cui traducevasi, quelle cave sono lasciate in abbandono. […]”.

Alcuni anni a seguire anche Angelo Guarnieri si cimentò in varie occasioni e realizzando diversi fondamentali contributi sull’argomento pietra bellunese. Esordì fornendo una panoramica nella tavola III della Carta Topografica della Provincia di Belluno del 1866, che si apre con una tabella relativa le presenti nel territorio bellunese: un elenco geografico redatto dopo i sopralluoghi del 1864 e corredato dall’utile descrizione delle caratteristiche del materiale, la cubatura della pietra estratta annualmente, il valore economico ed eventuali altre osservazioni.
L’autore continua il suo lavoro di disamina delle materie litiche del territorio bellunese con un stimolante articolo apparso sul giornale “Voce delle Alpi” del 1867 (n. 16, anno I) dal titolo Del commercio delle pietre molari, o cilindri di grès o molassa, che si cavano dall’arenaria grigia e rossastra nel bellunese per uso degli arrotini, che si apre con l’attestazione della ricchezza in prodotti minerali della provincia di Belluno e si sviluppa in una ottima e completa analisi riguardo l’arenaria lavorata anticamente per trarre armi e utensili da taglio ed in seguito utilizzata per la realizzazione di strumenti per l’arrotino, soprattutto con quella estratta dai siti di Calluneghe di Bolzano Bellunese, Valdantre e Costalunga di Tisoi e Canzole di Libano. Di certo Guarnieri sostiene l’impiego antico di queste pietre, portando diverse argomentazioni tra cui il prestigio delle spade prodotte a Fisterre dopo la Seconda Guerra Punica per la “squisitezza della tempra e per la loro affilatura” di sicuro ottenuta con questa arenaria, mentre è dal XV secolo che il commercio di queste mole ebbe un forte sviluppo fino a vederne l’esportazione non solo in diverse zone d’Italia ma anche in Germania, nella penisola balcanica, in Grecia, in Egitto e verso il Levante grazie al porto internazionale che era allora Venezia. Queste pietre, tratte in cave cunicolari, erano grigie e rosse: le prime con granatura più fine davano un taglio sottile imbrunendo più facilmente gli utensili, mentre le seconde rodevano maggiormente e il metallo non ne usciva mai perfettamente lisciato.

Nel saggio Delle cave di pietra più importanti nella provincia di Belluno (“La Provincia di Belluno”, n. 82, 11 luglio 1871) l’autore dà ancora precise ed interessanti notizie in merito alle cave bellunesi e agli usi per cui tali pietre venivano tratte, anche se in apertura del contributo afferma che molte sono le cave esistenti ma quelle più rinomate sono a Castellavazzo, Soccher, Cugnan, La Secca, Le Rosse Alte, Campel, Cesiomaggiore e Fastro, nonostante ne esistano molte altre. Conditio sine qua non della loro fortuna era – come visto nel passato – di “trovarsi alla portata di strade carreggiabili” per cui “riesce facile il trasportare le pietre che se ne cavano, senza sostenere una spesa di trasporto che sorpassi od eguagli il prezzo del lavoro”.

Delle cave di Cugnan racconta che “Percorrendo o la strada maestra, o quella che a sinistra del Piave conduce a Capodiponte, fatti circa 8 chilometri, si comincia a salire, e al di sopra di Lastreghe si trovano antichissime cave, lavorate forse dai Romani, ed ora abbandonate, le quali diedero il nome al villaggio, e procedendo si vedono le cave attuali di ardesia che sono state denominate dal vicino villeggio di Cugnan. Esse hanno un’inclinazione da mezzogiorno a settentrione di otto e anche dieci gradi […]. Le pietre che se ne cavano, hanno un color bianco tendente al giallognolo; le più sottili si usano in luogo di tegole a coprire i tetti delle case; le altri s’impiegano nei pavimenti all’interno delle case, nei vestiboli delle chiese, per coperte di stufe e di tavolini, per lapidi, stipiti di porte e finestre, per sporti di cornici, coperte di scalini, tavoli da bigliardo, ecc. I pezzi che hanno una grossezza da 6 a 8 centimetri, potrebbero riuscir utili anche per qualche uso in litografia, e noi ne abbiamo fatto esperienza nel nostro Stabilimento litografico; ma il racchiudere essi dei nodi di pietra focaia fa sì che non vi si possano con sicurezza eseguire lavori senza la tema che sotto pressione la pietra possa spezzarsi. Di questo calcare, lavorato a martellina o a punta, se ne fa un commercio abbastanza rilevante non solo fra noi ma ancora, e forse più, nelle vicine provincie di Treviso e di Udine, calcolando che se ne esportino annualmente da cinque a sei mila metri quadrati […].

Riguardo alla cava di La Secca “lambente la strada maestra che conduce a S. Croce e Vittorio” dice che “la pietra che se trae, contiene qua e là fossili coralliferi, ed è ricercata per pavimenti, selciati di strade, scalini, stipiti di porte e di finestre, pilastri, colonne rustiche, mangiatoie per animali, anelli di pozzo, ecc.; ma non si presta che ad una levigatura ordinaria. Anche di questa pietra, oltrechè nel Bellunese, si fa un esteso commercio nel trevigiano e nel Friuli, e si calcola che fuori di Provincia si trasportino annualmente oltre a sei mila metri quadrati di varia grossezza”.

Racconta a seguire il Guarnieri del calcare olitico delle Rosse Alte, vicino a Vedana, un calcare bianco giallognolo di facile lavorazione che si trova in massi, utilizzato per piedestalli, fregi, cornici, vasi, tubi per acquedotti, statue per giardino e stipiti, attestandosi il suo utilizzo per la chiesa e il convento di Vedana; la pietra di Campel invece è grigio-rossa macchiata e veniva utilizzata per coperture, pavimenti, coperte di stufe e stipiti; con la pietra di Cesiomaggiore si facevano caminetti per camere signorili, coperte da tavoli e stufe e stipiti; per ultima l’autore cita la pietra di Fastro, tratta da una ricchissima cava vicino la Scala di Primolano: una pietra bianca tendente al giallo che riconosce come una delle più belle della nostra Provincia perché un calcare compatto facile da lavorarsi e di bella resa in opere grandi e decorative come testimoniamo le base e i capitelli delle colonne del teatro di Belluno nonché molti palazzi feltrini.

Il 1871 è la l’anno della ufficializzazione della qualità delle pietre bellunesi, con l’attestazione di tutto rilievo che fu l’Esposizione provinciale di Belluno, inaugurata il 10 settembre alle 9 del mattino presso Palazzo Minerva (sede dell’ex Accademia degli Anistamici). Con lo scopo di mettere in mostra nelle sale adattate del Regio Liceo i suoi prodotti migliori e le eccellenze del territorio facente da poco parte di una nuova Italia in cerca di effettiva unità e conoscenza reciproca, Belluno propose all’interno della prima sezione i prodotti del suolo tra cui minerali e pietre. Nel giornale dell’Esposizione si legge che “l’Esposizione valse a dimostrare quanto la nostra provincia sia ben provveduta, non solo di pietre da taglio acconcie agli usi delle costruzioni comuni, ma pur anche di marmi calcari vagamente coloriti e screziati, suscettivi di pulimento, di lavoro preciso e intarsio. I numerosi e ben scelti campioni, ridotti quasi tutti alla forma parallelepipeda, rappresentavano sulle diverse faccie i diversi modi di lavoro a cui si adatta ogni pietra […]. Il Comizio Agrario di Feltre presentò 34 campioni delle pietre lavorabili di quel distretto: ed il cav. Gio:de Pantz espose in 17 campioni quelle del distretto di Fonzaso. Dieci campioni delle conosciutissime cave di Castellavazzo furono presentati dal Sindaco di quel Comune, e sei ne presentò per il suo comune il Sindaco di Tambre. Per cura dell’egregio parroco di Cadola furono esposti bei saggi delle pietre di Soccher, della Secca, Quantin e Cugnan; dal R. Liceo Tiziano furono esposti campioni delle pietre delle Rosse alte di Vedana, di quelle di Sospirolo e del marmo rosso di Fornesighe nel Zoldano; dal cav. Francesco Doglioni la così detta lumachella della valle del Gresal; dal sig. Giuseppe Favretti i marmi variegati bianco, e rosso, del Colle di s. Pietro a Longarone; dal prof. Luigi Zann la pietra nera della valle di S. Lucano in Agordo; dal cav. Giuseppe Segusini il calcare litografico di Fener, e da Gio:-Battista Piazza il marmo bruno della cava da lui scoperta a Vizzanuova presso Lorenzago. Le importantissime cave di pietra da arrotino di Tisoi erano rappresentate da un blocco di quella roccia, contenente gli avanzi dello scheletro di un cetaceo (Pachyodex Catulli), da due pezzi della stessa pietra lavorati a cilindro ed a quadrello, da quattro bottiglie contenenti nei diversi stadii di elaborazione i solfati di soda e magnesia che si possono estrarre da quelle cave, e da una memora del celebre chimico Bartolomeo Zanon sulla preparazione e sull’uso dei medesimi. Il sig. Antonio Martini presentò un saggio dell’arenaria di Sospirolo, la quale non può competere con quella di Tisoi negli usi dell’arrotino, ma viene utilmente adoperata come pietra da taglio, perché assai facile a lavorarsi, e perché indurisce notabilmente al contatto dell’aria. Le pietre per coti da falce, trovate di recente a Taibon, a Voltago e in Zoldo, e specialmente quelle di Taibon, esposte da Gio:-Batta dall’Agnola, riconosciute di qualità migliore ed ormai poste in commercio, segnano il principio di una nuova industria provinciale, che merita di essere incoraggiata, perché serve a provvedere un oggetto di esteso consumo alla povera classe dei contadini, per la quale torna proficuo anche ogni piccolo risparmio di spesa”.

Molte di queste pietre furono insignite della menzione d’onore di prima classe da parte della giuria: un ottimo risultato ed una ulteriore conferma di qualità.

L’Ottocentesca attestazione di importanza si chiude con il fascicolo datato al 1891 a cura del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio dal titolo Statistica industriale. Notizie sulle condizioni industriali della Provincia di Belluno all’interno del quale è riportata la presenza di 61 cave di pietra sul territorio di 18 comuni e che davano occupazione a 571 operai specializzati, detentori di una tradizione antica che proprio nel passaggio tra XIX e XX secolo stava per essere stravolto da una grande svolta tecnologica, con l’avvicendamento dal lavoro prettamente manuale all’introduzione massiva di esplosivi e strumentazione più automatizzata che velocizzasse e facilitasse il lavoro ma che soprattutto all’inizio fu un’arma a doppio taglio perché portò a rovinare molti blocchi e a creare situazioni di pericolo ed instabilità dei piani di cava a causa di vibrazioni nuovi e di utilizzi non propriamente corretti.

Tra le opere eseguite in questo secolo si ricorda il Teatro Comunale di Belluno improntato in stile neoclassico su progetto di Giuseppe Segusini nel 1833-35, dopo lo smantellamento dell’antico Fondaco delle biade che si innalzava, seppur molto più piccolo, a fianco della Porta a ridosso delle mura cittadine, di cui è rimasta traccia nell’architrave del 1625 che troviamo murata verso il retro del teatro. 

Sulla facciata sono presenti elementi che si ricollegano ad altre opere compiute dal Segusini in quello stesso periodo sia in Veneto (Feltre, Serravalle) che in Austria: la gradinata di ingresso è contraddistinta da due leoni, opera di Pietro Zandomeneghi, così come le due decorazioni sopra le porte laterali che conducono al teatro. In alto sono posizionati nove busti in pietra e in bronzo di Rettori veneti dei secoli XVI e XVII dal precedente Palazzo Comunale ormai demolito. La parte interna restaurata nel 1866, poi di nuovo nel 1948 e nel 1993. I capitelli e le basi delle colonne di ordine gigante della facciata furono realizzate con la pietra tratta dalla cava della scala di Fastro.

Lapide fondaco biade dietro il Teatro di Belluno

Lapide commemorativa del Fondaco delle Biade con architrave originale, Belluno.

Teatro Comunale di Belluno

Teatro Comunale, Belluno.

Il Novecento fu il vero e proprio secolo dei cambiamenti e in certi termini del declino.

Il primo dopoguerra fu caratterizzato dalla formazione di cooperative di consumo e di lavoro, quest’ultime in generale nate dalla associazione di muratori e scalpellini. Tra tutte ricordiamo qui la Società Anonima Cooperativa costituita a Bolzano Bellunese tra gli operai impiegati nella estrazione e lavorazione della pietra arenaria allo scopo di “provvedere al benessere materiale e morale, il riscatto di tutte le cave esistenti nella zona, lo sfruttamento e la gestione diretta delle stesse”, nonché la società di lavoro cooperativo La libertà che diede avvio all’estrazione massiva della Dolomia dalla cava di Maseròz di Cencenighe Agordino automatizzando il trasporto della pietra estratta con la realizzazione di una teleferica atta a far scendere i massi a valle.

Questi cooperative ben presto presero le forme di leghe di mestiere, in un movimento operaio organizzato in forme sindacalmente più avanzate e motivate: un esempio viene dagli scalpellini e manovali di Soccher che tra il settembre e l’ottobre del 1922 diedero le mosse ad una forte manifestazione di protesta per le proprie condizioni di impiego mentre erano occupati a lavorare le pietre per il ponte ferroviario di Cadola nel momento in cui i lavori sul tratto ferroviario Vittorio Veneto-Ponte nelle Alpi potevano essere una importante forma di riqualificazione della pietra locale anche in chiave commerciale, sfruttando un nuovo modo di trasporto alternativo alla fluitazione – caduta in disuso – e al viaggio su strada.

Molte cave cessarono comunque la loro attività durante questo primo quarto del Novecento: tra queste citiamo quella di Losego, poi riattivata dopo la Seconda Guerra Mondiale ma solo nei sito di Ribe per trarre pietra a scopi edilizi abitativi. In questo momento di buio comunque non andò perduta la tradizione secolare di estrazione, infatti gli scalpellini losegani trovarono impiego in altre località tanto in cava quanto in cantieri per la realizzazione di opere.

Il Fascismo fu un momento di riqualificazione delle attività locali, anche secondo il principio dell’autarchia e della rivalutazione delle tradizioni. Le cave di pietra della zona della Valbelluna vennero valorizzate, insieme alle fornaci: vedasi ad esempio la messa in opera delle pietre di Soccher e La Secca per i lavori sul sistema idroelettrico facente capo al Lago di Santa Croce con le varie canalizzazioni e sulle centrali idroelettriche – vedasi la realizzazione dello zoccolo dell’impianto di Fadalto, costruito con pietre estratte da una cava sopra Soccher sulle pendici del Monte Dolada verso Soverzene.

Durante la Seconda Guerra Mondiale molte imprese della pietra e cave locali vennero classificate come “Impresa che fabbricava materiale bellico”, tra cui ricordiamo la ditta Fant di Bolzano Bellunese che forniva mole all’ILVA e all’ANSALDO, aziende siderurgiche inquadrate nella realizzazione statale di armamenti, cannoni e carri armati. Il secondo dopoguerra vide un’altra ondata di associazionismo tra gli scalpellini e citiamo qui il movimento più importante, datato al 13 febbraio 1957, che andò a costituire la Cooperativa scalpellini e cementisti di Paiane, riunitisi con lo scopo di estrarre e lavorare ogni tipo di marmo nonché assumere ogni commessa di lavoro inerente al mestiere dei soci. Una finalità di ampio respiro, che non diede purtroppo i risultati auspicati.
A caratterizzare il secondo dopoguerra del Novecento non fu semplicemente l’associazionismo ma anche la presenza di ondate contrastanti tra la corsa alla modernità e la trasmissione delle trasmissioni e le lavorazioni tradizionali, con la finalità di riqualificazione dei prodotti storici locali in termini commerciali e moderni. In questo periodo grande fu la attività e il fermento all’interno della ditta Fant di Libano che si espanse fino a trovare occupazione per 150 lavoratori impegnati con turni stagionali per realizzare mole per officine meccaniche, consorzi agrari, negozi di ferramenta, fabbri, stabilimenti siderurgici e coltellerie fino ad essere una voce forte, dal 1947 al 1949, sui mercati esteri dalla Repubblica Ceca alla Svezia, l’Iran, l’Iraq e l’Egitto per la lavorazione dei cristalli, mentre l’attività cessò nel 1963 per la concorrenza delle mole artificiali e la pericolosità della estrazione della materia prima.

Da ricordare è anche la nuova apertura nel 1959 della cava Rosei Sora Losego da parte dei fratelli Prest, famiglia che aveva già in locazione alla metà del 1800 i terreni interessati alla estrazione, che si fecero notare per impegno, serietà a competenza rifornendo direttamente la fornace di Fadalto Alto per la produzione di calce in un momento fortunato di boom edilizio.

La storia della pietra bellunese non si ferma qui, ma sta continuando ad essere seriamente scritta nei tempi e nei modi da alcuni “eroi” del settore che portano avanti l’attività nonostante le difficoltà e la concorrenza interna ed estera, nonché la congiuntura del periodo, con risultati di grande qualità e che vale la pena essere sottolineati e conosciuti perché comunicanti il nostro territorio e le nostre tradizioni.

 

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